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Type de textesource
TitreLa poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta
AuteursCastelvetro, Lodovico
Date de rédaction
Date de publication originale1570
Titre traduit
Auteurs de la traduction
Date de traduction
Date d'édition moderne ou de réédition1979
Editeur moderneRomani, Werther
Date de reprint

(III, 18), t. I, p. 482-485

Adunque coloro che vogliono rappresentare bene i passionati, come gli adirati, i dolorosi, gli amanti e simili, deono essi essere tali, e trasfigurarsi in simili persone ; percioché se coloro, li quali veramente hanno questi affetti, dicono parole e fanno atti convenevoli allo stato nel quale si truovano senza arte, e commuovono altrui, medesimamente colui che si saprà trasformare in questi cotali, senza altra arte gli rappresenterà convenevolmente e commoverà altrui. […] Ora non so se questo insegnamento, quantunque sia approvato da tanti valenti uomini, sia giovevole e da essere seguitato. Percioché noi sappiamo che il poeta dee seguire il convenevole non pure nel rappresentare i passionati, ma l’altre persone ancora e l’azzioni ; il quale convenevole non si raccoglie dal poeta da quello che è in lui o da quello che è avenuto a lui, ma da quello che suole essere communemente in quella maniera di persone simile a quella che noi rappresentiamo, avendo rispetto al luogo e al tempo e all’altre circostanze, e da quello che le suole avenire, conciosia cosa che molto meglio consideriamo le passioni d’altrui e le azzioni d’altrui, e le giudichiamo, che non facciamo le nostre passioni e azzioni. E perché ci fa bisogno di sottile considerazione e di perspicace giudicio, non dobbiamo considerare e proporci una persona sola passionata o una azzione, e tanto meno la nostra, ma molte e d’altrui, accioché prendiamo a rassomigliare quella che convenga più al proposito nostro ; il che non potremo fare se riguardiamo solamente alla passione nostra, si perché non la possiamo notare così bene in noi come facciamo in altrui, si perché la nostra non sarebbe se non d’una forma, secondo la natura nostra. Come, per cagione d’esempio, la maraviglia che negli Apostoli rappresentò Giotto, facendogli a musaico nel portico di san Pietro a Roma, quando Cristo apparve loro caminare sopra l’acque, di cui di sopra ancora facemmo menzione, non è d’una maniera, ma è in ciascuno di loro diversa ; la qual cosa non avrebbe fatta o saputo fare, se avesse riguardato solamente nella maraviglia sua. Senza che io non so se altri si possa adirare, sentire dolore, allegrezza e maraviglia o altro a sua volontà, quando è quieto, giolivo, doloroso, senza maraviglia o altro, conciosia cosa che l’animo nostro non si commuova a nostra volontà, ma alla sua commozione fa bisogno di cose spiacenti, piacenti, dolorose, maravigliose e di simili procedenti altronde. Adunque egli è vero che altri, quando egli è passionato veramente e è commosso, che egli commuove altrui alcuna volta quando dimostra la sua passione per quelle vie che sieno atte a commuovere ; percioché altre sono le vie che usa un fanciullo a dimostrare la sua passione, e altre sono quelle che usa una donna, e altre quelle che usa uno uomo forte, e così sono diverse secondo l’altre condizioni degli uomini. Se fosse vero che Dante, in comporre le sue rime d’amore, non usasse altra via o arte a pervenire al sommo che seguire quello che gli dettava e quando gli dettava l’amorosa passione, secondo che egli afferma, io nol so, ma nol credo già. Percioché io so che molti di non rintuzzato ingegno hanno composte molte rime amorose, essendo stati punti e stimolati da amore a comporle, le quali non che sieno perfette, anzi non sono in conto niuno. Certo egli ha ripiene quelle sue rime d’altro che del dettato d’amore, avendole ripiene di molti sentimenti nobili e alti, presi da scrittori degni, si come egli mostra nel Convito. Né dobbiamo dubitare che il Petrarca, nel parlare d’amore nelle sue rime, per farle così leggiadre come sono non seguitasse più tosto qualunque altro che amore o se stesso, si come si vede apertamente in tanto che è da biasimare alcuna volta più tosto come ladro che da commendare come poeta, si come anche di sopra è stato detto. Io non niego che le parole del dicitore, se non sono accompagnate da sembianti convenevoli, non paiano e riescano fredde, e che non sia cosa che faccia più che la verace passione apparere i sembianti convenevoli ; ma dico bene che non è perciò che alcune persone non sieno, le quali, senza essere stimolate da verace passione, sanno fare i sembianti convenevoli, quali furonoi Rosci, i Paridi e simili, tanto commendati e ammirati dall’antiquità. De’ quali sembianti, sì come di parte pertenente alla vista, il poeta non dee tener conto. Ora perché Aristotele conosceva che era malagevole cosa il mutarsi d’una in un’altra passione, senza che ce ne sia prestata cagione di fuori, per la sola nostra volontà, usa questo modificamento di parole : ὅσα δυνατόν, « quanto è possibile ».

Καὶ σχημάσι. Sono le figure del corpo e sono le figure dell’animo, quanto è al presente nostro proposito. Le figure del corpo sono quelli atti, movimenti o proferenze che accompagnano le passioni dell’animo, e per gli quali di fuori conosciamo quali esse sieno dentro, si come conosciamo che dentro è passione dolorosa per lo pianto, per lo percuotersi il petto, per lo battersi a palme, e per simili cose ; le quali figure sono differenti da quelle che accompagnano un’altra passione, pogniamo la passione amorosa, la quale è accompagnata da riso, da canto, da ballo e da simili cose. Le figure dell’animo sono le mutazioni dell’animo dentro d’uno essere in uno altro, come è il passare d’allegrezza in tristizia, o d’ira in quiete. Ma perché Aristotele vuole che le figure del corpo e dimostrantisi di fuori sieno informate da quelle dentro e che procedano da loro come da sua radice, intende qui, per σχημάσι, delle figure dell’animo e non del corpo. Laonde per più piena dichiarazione, non sarebbe stato male se vi fosse stato aggiunto τῆς ψυχῆς.

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